«Chi si è strenuamente opposto alla nostra causa, tentando di svuotare il significato del voto con una campagna di disinformazione e scorrettezza, ora si dilegua nell’ombra, fingendo indifferenza. Non ha compreso di essere stato travolto da un’onda di milioni di cittadini stanchi di una politica stantia e autoreferenziale. La verità, in tutto questo, è cristallina come l’alba. E l’unica perplessità che ora aleggia è confinata nella mente di Craxi». Queste parole, cariche di una vittoria tangibile, risuonano ancora oggi, evocando il contesto vibrante che precedette e seguì quel fatidico 9 giugno 1991, data che simbolicamente segnò l’inizio del crepuscolo della Prima Repubblica. Un’epoca si avviava alla conclusione, e il referendum sull’abolizione della preferenza multipla rappresentava una delle sue pietre miliari.
Tutti coloro che vissero quel periodo ricordano vividamente l’invito, giunto da Bettino Craxi in persona, a disertare le urne. Un suggerimento audace, quasi sfrontato, registrato negli annali con la celebre esortazione ad «andare al mare». Tale dichiarazione venne rilasciata alcune settimane prima della consultazione referendaria, in un’immagine diventata iconica: Craxi, salendo su un’automobile che lo conduceva lungo le assolate strade della Sicilia, impegnato in una campagna elettorale per le Regionali, utilizzò la suggestione del sole e del mare per veicolare il suo messaggio antireferendario. Era un tentativo di affiggere sull’inedia estiva una giustificazione all’astensione di massa, mirata a impedire il raggiungimento del quorum e, di fatto, a invalidare l’esito del voto. Un gesto di sfida alla nascente spinta referendaria che cercava di riformare il sistema politico bloccato.
Purtroppo, nonostante la risonanza storica, non esiste una registrazione video di quel preciso momento e di quelle parole, affidate alla memoria storica e ai taccuini dei cronisti dell’epoca, che le consegnarono all’eternità della politica nostrana. Tuttavia, gli archivi della Rai custodiscono un altro frammento rivelatore della sprezzante attitudine del leader socialista di fronte alle insistenti domande sul referendum. In un celebre episodio avvenuto la domenica precedente il voto, ripreso dalle telecamere, si sente Craxi rivolgersi a un commensale con un sarcastico «passami l’olio!», mentre volgeva le spalle a un giornalista che instancabilmente lo incalzava sul tema referendario, durante un pranzo a Caprera, a margine di una rievocazione garibaldina. Questo ‘prima’ delineava un leader che sfidava apertamente l’ondata di trasformazione politica che stava per investirgli. Il ‘dopo’, invece, è incarnato dalla frase sulla «confusione esistente nella testa di Craxi», pronunciata dal raggiante leader referendario Mariotto Segni. Le sue parole giunsero a quorum ampiamente acquisito (un impressionante 62,5% di partecipazione) e risultati schiaccianti (un 95,6% di “sì” a favore dell’abolizione della preferenza multipla). Questo esito referendario, che travolse le aspettative e le strategie di chi puntava all’astensione, rappresentò il compimento di un sogno per i promotori del referendum. Oggi, trentaquattro anni dopo, quel medesimo scenario, quel medesimo auspicio di fallimento per chi tenta di boicottare le consultazioni popolari, viene fantasticato dai più ottimisti tra i referendari per il destino politico di Giorgia Meloni. La Presidente del Consiglio, infatti, ha recentemente identificato nella formula «vado a votare ma non ritiro le schede» la propria inedita – e certamente controversa per un capo di governo italiano – via all’astensione referendaria, pur manifestando una presenza formale al seggio.
Il ‘quando’ di questa mossa di Giorgia Meloni non è un aspetto secondario, ma un elemento cruciale della sua strategia, con risvolti potenzialmente significativi. La scelta del giorno in cui presentarsi al seggio, pur rinunciando al ritiro delle schede, sarà attentamente valutata. Se decidesse di farlo di domenica, il giorno stesso del voto, la sua presenza inedita e simbolica, senza l’atto concreto del voto, rischierebbe di fare il giro delle televisioni e del web, scatenando un possibile, seppure imprevedibile, effetto boomerang. Un’immagine così forte potrebbe generare sia emulazione che dissidenza, a seconda dell’interpretazione del gesto da parte dell’opinione pubblica. Oppure, potrebbe optare per il lunedì, quando il gioco sull’affluenza potrebbe essere già ampiamente compromesso o definito, minimizzando l’impatto mediatico della sua mossa. In questo frangente, anche i più convinti sostenitori del referendum manifestano un cauto pessimismo: la riflessione più gettonata, quasi un mantra, è che «Andrà lunedì poco prima della chiusura delle urne». Questo perché la strategia dell’astensione referendaria, ogniqualvolta coinvolge una figura politica di primo piano, si accompagna invariabilmente a polemiche accese e, troppo spesso, a un calcolo errato sull’effettiva affluenza. La storia referendaria italiana ne è piena di esempi lampanti.
Un caso eloquente risale al 1985, all’alba della consultazione sulla scala mobile, un pilastro dell’economia e del costo della vita. Marco Pannella, il nume tutelare dei referendari italiani, un maestro della comunicazione politica non convenzionale, teorizzò in quell’occasione il sabotaggio del quorum come l’unica via possibile per salvare il provvedimento fortemente voluto dal governo Craxi. Lo espresse alla sua maniera, in quel ‘pannellese’ stretto che lo rendeva inconfondibile, ricorrendo a una doppia negazione per rafforzare il concetto: «È assolutamente impossibile non vincere la prova referendaria facendo ricorso all’ipotesi, prevista dall’articolo 75 della Costituzione, del rifiuto del voto di oltre il 50 percento degli aventi diritto». Pannella era convinto che un’affluenza bassa, strategicamente orchestrata, avrebbe protetto la scala mobile. Si sbagliò, clamorosamente, sia sul quorum raggiunto (un robusto 77,85%) sia sull’esito finale del referendum (vinse il no, che sfiorò il 55%). Una dimostrazione di come la ‘strategia del non voto’ possa essere un’arma a doppio taglio, spesso sottovalutata nel suo impatto sull’elettorato. Il popolo, talvolta, risponde proprio a chi tenta di limitarne la voce, trasformando il disinteresse auspicato in una partecipazione attiva e contraria.
Altrettanto in errore si trovarono, nel 1991, Bettino Craxi e il suo acerrimo nemico Umberto Bossi, entrambi schierati per l’astensione, scommettendo sul fallimento del voto contro la preferenza multipla. Di fronte a qualche sparuto sondaggista che azzardava l’ipotesi del raggiungimento del quorum, il leader socialista rispose con un irrisoluto e quasi minaccioso «E allora gli andrà ritirata la licenza», sicuro della sua scommessa. Una scommessa che, come la storia ha crudelmente dimostrato, si trasformò in un autentico naufragio politico, sancendo la sua sconfitta e accelerando il declino della sua influenza. Questo precedente craxiano, emblematico di un errore di valutazione sull’umore popolare, terrorizzò i successivi leader politici. Ne è l’esempio Matteo Renzi che, all’epoca del referendum sulle trivelle del 2016, si mosse inizialmente nell’ombra, con estrema cautela. La minoranza del suo stesso partito, di cui era segretario, scoprì solo da un’informativa dell’Agcom che il Partito Democratico si era iscritto, in maniera quasi subliminale, al fronte del non voto. Solo in un secondo momento Renzi decise di uscire allo scoperto, definendo il referendum «una bufala», ma lo fece quando era ormai evidente che il quorum era molto più un miraggio che una possibilità concreta. La ritirata strategica, dunque, per minimizzare i danni di una sconfitta annunciata, piuttosto che un’audace mossa politica.
Cinque anni prima ancora, all’alba delle ultime consultazioni riuscite a raggiungere il quorum – i referendum su nucleare, acqua pubblica e legittimo impedimento – Silvio Berlusconi si trovò in una posizione analoga, cercando di influenzare l’affluenza. Il risultato di quelle consultazioni dimostrò che, quando la percezione popolare di un tema è forte e sentita, nessuna strategia di boicottaggio, per quanto raffinata, può realmente spegnere la voce dei cittadini. La storia dei referendum italiani è un susseguirsi di strategie, di calcoli e, spesso, di clamorosi errori di valutazione, che continuano a plasmare il dibattito politico e le dinamiche tra il potere costituito e la sovranità popolare. Ogni volta che un leader politico invita all’astensione, si prende un rischio enorme, scommettendo non solo sul fallimento di una consultazione, ma sulla propria capacità di leggere e guidare l’opinione pubblica.