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Una vecchia signora, che abita non lontano da me, è stata colpita da un infarto, per fortuna non mortale. Mentre veniva portata in barella giù per le scale – stava al terzo piano – a ogni pianerottolo si rivolgeva ai vicini, raccomandando querula «che avessero cura del suo gatto», che la bestiola non dovesse soffrire durante la sua assenza. Non si preoccupava, o si preoccupava ben poco, delle sue precarie condizioni, era incurante del dolore lancinante alla spalla: il suo solo pensiero era per l’amicone, un soriano gigantesco che le teneva compagnia da più di dieci anni e che, per dir così, era invecchiato insieme a lei.
Molti deplorano che si amino gli animali come fossero degli uomini, e che si rinunci al commercio con i propri simili per scegliere un gatto, o un cane, come interlocutori, ma io mi sono convinto che la cosa non è soltanto comprensibile, ma anche assolve, soprattutto oggi, un’importante funzione: rendere meno insopportabile alle persone anziane la solitudine e la convivenza con i propri poco rosei pensieri sul futuro.
Tra gli animali cosiddetti di affezione sembra proprio che i gatti stiano vincendo di diverse lunghezze la gara delle adozioni. Si pensi che nel nostro Paese esiste un contingente di graziosi felini che tocca i sei, sette milioni di individui! Anche all’estero il gatto fa da capofila: un censimento portato a termine in Belgio, nella città di Bruxelles, ha potuto accertare che se c’è un cane per ogni dieci abitanti, i gatti sono più del doppio. Una circostanza curiosa: mentre il cane sembra più gradito ai ceti abbienti, il gatto verrebbe accolto con maggiore frequenza nelle famiglie dei ceti popolari. In altre parole, il cane risulterebbe un animale più «nobile» del gatto, che, povero lui, malgrado tutte le sue pose da «gran signore», sarebbe irrimediabilmente un animale proletario. La variazione di preferenza potrebbe essere spiegata con una considerazione squisitamente utilitaristica: il gatto, come si sa, è un formidabile cacciatore di topi, e ci sono di sicuro più topi nei quartieri periferici che nelle zone residenziali.
Da parte mia, che, mi si perdoni il gioco di parole, è una parte «di parte», perché come tutti sanno io sono un gattofilo impenitente, e forse intransigente, mi piace formulare un’ipotesi sociologica alquanto maliziosa: non sarà che nei quartieri alti si cerchi nell’animale non un amico, ma una sorta di lacchè a quattro zampe, in altre parole un servo?
Se è così, non ci sono dubbi che il cane si presti alla bisogna più del gatto. Corre, se fischiate; si mette a cuccia, se glielo ordinate; ti dà la zampa, se gliela chiedete; sta buono buono fuori dal negozio se gli avete intimato di stare lì ad aspettarvi. E se le prende tutte se lo picchiate. Povero cane, fedele, troppo fedele alla consegna! Provate a esigere tutto questo da un gatto: se accorre al vostro richiamo non è per obbedienza, ma nella speranza e nel miraggio di una qualche leccornia servita per merenda. E se fate la voce grossa, non sa niente di Hegel e del rapporto occulto di collaborazione che esisterebbe tra la vittima e il carnefice: se la batte a zampe levate e se ne va per la tangente della finestra o della porta. Inoltre, tento di completare la mia ipotesi tendenziosa: nelle case dei poveri non si è soliti far «troppe moine», e il felino, se non viene viziato fin dalla più tenera infanzia da una qualche padroncina troppo invadente, non ti secca di sicuro con le sue effusioni. Se vuole esprimerti la sua benevolenza non si comporta come il cane, che abbaia, ti salta addosso, ti lecca da capo a piedi. Il gatto si struscia, contro le tue gambe, dolcemente, con grande dignità e discrezione, e non diventa mai un postulante d’affetto importuno. Da ragazzo, ho ammirato il gatto di un suonatore ambulante, che faceva la sua comparsa nel mio quartiere una volta al mese spingendo e girando la fatidica manovella di un vecchio organo di barberia. Sullo strumento semovente si poteva osservare un grosso gatto rosso, seduto sulle zampe posteriori, o stravaccato sul ripiano di legno, e il suo irsuto padrone gli parlava incessantemente, sia che desse voce al suo organetto, sia che spingesse la macchina musicale per le strade. Il gatto, seduto o disteso, rispondeva con brevi, sommessi miagolii, che sembravano dei «sì, sì», oppure delle cortesi, civilissime confutazioni. Certe volte, il barbone gli dava un colpetto sul capo e il gatto sgranava gli occhi, e forse ronfava di consenso. Lui e il suo padrone, vagabondi per il mondo, erano per me una sorta di allegoria della libertà, e chissà!, della vita beata.
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