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PIRLO COSTA CARO A MALDINI

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COSA C’E’ DIETRO IL LICENZIAMENTO IN TRONCO DI MALDINI? L’EX DIRIGENTE ROSSONERO AVEVA IN MENTE DI DARE UN CALCIO IN CULO A PIOLI E DI PUNTARE SU PIRLO – “LO SO CHE È UN MIO PROBLEMA, MA IO DEVO SENTIRMI PROTAGONISTA” – IL RACCONTO DEI 4 ANNI DI LAVORO COME DIRETTORE DELL’AREA TECNICA: “ALL’INIZIO, OGNI SERA TORNAVO A CASA E DICEVO A MIA MOGLIE CHE ERA UN DISASTRO. MI SENTIVO INUTILE, MI CHIEDEVO COSA CI STESSI A FARE”…

Aveva in mente una rivoluzione tecnica, Paolo Maldini, prima di chiudere il suo rapporto con il Milan. E per rivoluzione non si intende solo un profondo rinnovamento della rosa, ma anche un cambio di guida in panchina: via Stefano Pioli, al suo posto Andrea Pirlo. Maldini, stando a quanto filtra da ambienti rossoneri, avrebbe voluto in panchina l’ex compagno con cui aveva un rapporto speciale. Non a caso qualche anno fa l’ex centrocampista disse: “Paolo? Il migliore con cui ho giocato, è un pezzo di me”. I due hanno sempre avuto un legame stretto e Maldini voleva farlo diventare, di nuovo, anche un rapporto professionale. Ma non ne ha avuto il tempo.

Mandare via Paolo Maldini dal Milan è una voce che fa oggettivamente curriculum. Nell’irrilevanza dell’aneddoto, forse è questo il problema. Maldini ha sempre dato l’idea di essere un uomo che segue soprattutto le proprie convinzioni e il proprio istinto. Che non intende derogare da quello che è. Per ricordare le ragioni di questa sua presunta rigidità, ancora una volta si deve tornare alla casella di partenza. Lui è Paolo Maldini, per altro figlio di Cesare. Bisogna prendere il pacchetto completo. Manca lo spazio per riassumere i migliori anni della nostra e della sua vita, venticinque stagioni e 26 trofei, la gioia di vedere diventare uomo nei più bei Milan di sempre, nonché miglior difensore della storia del calcio. E mai una parola sbagliata, mai un suo spiffero dall’interno.

«Sono una persona fedele al codice non scritto dei giocatori. È una forma di rispetto verso tutti i gruppi con le quali ho lavorato. Non mi piacerebbe raccontare una verità mia. Quando parli di una squadra, non esiste un unico punto di vista». Lo disse durante una intervista per Sette, spiegando perché era uno dei pochi ex calciatori a non avere mai scritto la sua autobiografia. Ai funerali di Paolo Rossi, in una Vicenza resa spettrale dal Covid, lo vedemmo con gli occhi rossi e il magone. Erano stati compagni di squadra per una sola stagione. Ma Paolo comprendeva fino in fondo il senso della perdita. Erano lacrime di dolore e gratitudine per un compagno di viaggio, un pezzo della sua vita. La fedeltà ai propri principi, il rispetto del suo ruolo di capitano, gli sono sempre costati care. Da pochi giorni è diventata maggiorenne la sconfitta di Istanbul, una finale di Champions persa da un vantaggio di 3-0. E con lei, la risposta a muso duro data in aeroporto da Maldini a un gruppo di ultrà che imputavano il tracollo allo scarso impegno dei giocatori. Pagò con un addio doloroso. I vergognosi fischi durante il suo ultimo giro di campo da parte di alcuni tifosi lo ferirono più di quanto lui sia ancora oggi disposto ad ammettere.

«A posteriori, la contestazione mi aveva quasi onorato. Ho cercato di vivere la mia professione dando il massimo, pretendendo rispetto, e accettando le sconfitte, che è difficilissimo. Sono stato me stesso. E se vogliamo, grazie a quei fischi, me ne sono andato lasciando un segno non banale». Passarono gli anni. Il giorno dopo la sua ultima partita, andò a tagliarsi i capelli. Da lunghi a corti, come lo sono ora. Cercava la normalità, un altro mondo dove sentirsi apprezzato senza essere sempre Paolo Maldini. Cominciava a capire che il suo nome era troppo grande, quasi ingombrante. «All’inizio, ogni sera tornavo a casa e dicevo a mia moglie che era un disastro. Mi sentivo inutile, mi chiedevo cosa ci stessi a fare. Lo so che è un mio problema, ma io devo sentirmi protagonista». Anche questa, se vogliamo, è una frase che rivela qualcosa. In quattro anni scarsi di lavoro, ha fatto molto più che portare Theo Hernandez o Sandro Tonali. Ha riallacciato le fila della storia, ha riacceso un fuoco che sembrava spento. Perché Pioli è in fiamme, d’accordo, ma sopra ogni cosa c’era lui. A Londra, prima della partita di ritorno contro il Tottenham, il pullman della squadra rimase imbottigliato nel traffico. La Uefa non intendeva derogare all’orario di inizio della partita, previsto per le 21. Maldini andò a parlare con i responsabili.

Si è cominciato alle 21.20. «Per quanto riguarda questo lavoro, lo faccio con il Milan o non lo faccio». Alla fine, diciamoci la verità. Maldini seguiva in solitaria l’ambizione che lo ha reso ciò che è, una leggenda. Ancora una volta, non si deroga a sé stessi. A Istanbul, quella di oggi, c’è andata la squadra che dalla panchina ha fatto entrare Lukaku e Brozovic. Talk is cheap, parlare è facile, è una delle spiegazioni che fornisce per giustificare le sue poche parole. Meglio i fatti. Buona vita Paolo. Le dirigenze vanno e vengono. L’affetto e la riconoscenza restano, per sempre.

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