Wall Street lancia un inequivocabile segnale di avvertimento: il dollaro americano è destinato a un ulteriore indebolimento, una prospettiva che sta catalizzando l’attenzione degli analisti e dei mercati globali. Questa imminente fase di deprezzamento del biglietto verde è racchiusa in un quadrilatero di fattori interconnessi e potenti: l’anticipato taglio dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, il rallentamento della crescita dell’economia statunitense, le politiche commerciali protezionistiche che potrebbero essere reintrodotte dall’amministrazione Trump, e le complesse implicazioni dei tagli fiscali e delle proposte normative. È uno scenario audace, ma sempre più condiviso, che potrebbe vedere il dollaro perdere un ulteriore 9% del suo valore entro i prossimi dodici mesi, culminando in una quotazione rispetto all’euro che potrebbe toccare quota 1,25.
Questo quadro pessimistico non è una speculazione isolata, ma una proiezione meticolosamente delineata da alcuni dei più influenti istituti finanziari globali, tra i quali spiccano giganti come Morgan Stanley e JP Morgan. Le loro analisi convergono su una tesi chiara: il dollaro, dopo un periodo di relativa forza, è ora vulnerabile a una serie di venti contrari macroeconomici e politici. Da qui, l’invito pressoché unanime degli analisti delle banche di Wall Street agli investitori è di ricalibrare i portafogli, scommettendo con maggiore convinzione su valute che si prevedono in apprezzamento: l’euro, lo yen giapponese e il dollaro australiano.
Il contesto storico recente rafforza queste preoccupazioni. Rispetto all’euro, il dollaro ha già ceduto circa 10 centesimi al cambio sin dall’insediamento dell’ex Presidente Trump alla Casa Bianca. Lunedì mattina, la quotazione a Wall Street aveva già superato la soglia di 1,1437 rispetto all’euro, un livello che non veniva toccato dai primi di febbraio del 2022, un periodo in cui la spirale inflazionistica globale stava muovendo i suoi primi, inarrestabili passi. Questo segna una regressione significativa dalla precedente forza del dollaro, attribuita in parte alla politica monetaria aggressiva della Fed.
Le previsioni non si limitano al solo euro. Anche la sterlina britannica è attesa in forte apprezzamento, con proiezioni che la vedono salire da 1,35 a 1,45 entro il 2026, riflettendo una potenziale ripresa economica e una maggiore stabilità post-Brexit. Un percorso simile è previsto per lo yen, che potrebbe stabilizzarsi intorno a 143, recuperando terreno dopo un periodo di debolezza legato alla politica monetaria ultra-accomodante della Banca del Giappone. Questi movimenti valutari suggeriscono una redistribuzione della forza economica globale e una diversificazione delle opportunità di investimento.
Gli esperti sottolineano che le variabili in gioco sono molteplici e profondamente interconnesse. In cima alla lista vi sono le politiche commerciali future dell’amministrazione Trump. Tali politiche, in passato, hanno già contribuito a indebolire non solo la fiducia nelle esportazioni statunitensi, ma anche la forza intrinseca degli asset Usa, spingendo alcuni ambienti a un ripensamento profondo del ruolo egemone del dollaro sui mercati internazionali. Storicamente, il dollaro ha goduto di uno status privilegiato come valuta di riserva mondiale e mezzo di scambio per le transazioni globali, ma le tensioni geopolitiche e le strategie protezionistiche potrebbero eroderne la centralità.
Nonostante queste preoccupazioni, è importante notare che l’ex Presidente Trump e il suo segretario al Commercio designato, Scott Bessent, hanno costantemente ribadito la centralità e l’importanza strategica della moneta statunitense. La loro retorica mira a rassicurare i mercati sulla volontà di Washington di mantenere la forza del dollaro, anche se le politiche attuate potrebbero avere effetti controintuitivi. Secondo i dati forniti dalla Commodity Futures Trading Commission (CFTC), il trend ribassista del dollaro, pur essendo evidente, è ben lontano dagli estremi storici di deprezzamento. Questo dato, tuttavia, non inficia la proiezione di un ulteriore indebolimento fatta da Morgan Stanley; piuttosto, indica che il margine per un ulteriore calo esiste e che lo scenario delineato è plausibile e ampiamente condiviso dagli addetti ai lavori.
Uno dei fattori cruciali presi in considerazione dagli analisti per giustificare il deprezzamento del dollaro sono le potenziali modifiche al regime fiscale. In particolare, la lente di ingrandimento è puntata sulle imposizioni fiscali a carico di investitori stranieri e compagnie estere operanti negli Usa. La misura più controversa, sebbene poco visibile a una prima lettura, è contenuta nel famigerato “big beautiful Bill” allo studio al Senato, un pacchetto legislativo che potrebbe ridefinire gli oneri fiscali. Trump, infatti, avrebbe l’intenzione di alzare le tasse sui redditi passivi – come interessi e dividendi – guadagnati da investitori stranieri che potenzialmente capitalizzano da miliardi di asset americani. Sebbene alcuni analisti considerino questa misura relativamente contenuta nel suo impatto diretto sulla bilancia commerciale, essa ha già contribuito ad aumentare i timori e l’incertezza sugli investimenti americani. Questo accade in un momento particolarmente delicato per i mercati globali, dove la diversificazione degli asset a livello internazionale ha guadagnato una forza senza precedenti, spingendo gli investitori a cercare rendimenti e sicurezza oltre i confini tradizionali. L’incertezza fiscale si aggiunge così al mix di fattori che rendono il dollaro una scommessa meno attraente, spingendo capitali verso orizzonti più prevedibili e redditizi. La percezione di un ambiente fiscale meno favorevole, unita alle prospettive economiche e alle politiche monetarie, potrebbe dunque consolidare il trend ribassista del dollaro nei mesi a venire, ridefinendo le dinamiche del commercio e degli investimenti globali.