Negli ultimi mesi Roberto Calasso mise un punto definitivo sul senso del proprio lavoro di scrittore e lo chiamò Opera senza nome. Era un modo per rievocare e illuminare l’intera opera (11 volumi da La rovina di Kasch a La tavoletta dei destini) offrendola al lettore come una sorta di archivio-testamento.
L’Opera senza nome (edito da Adelphi) apre allo stupore inconsapevole dell’autore: «Se provo a pensare a quello che ho fatto, devo dire che certamente non sapevo mai quale sarebbe stato il prossimo passo».
Un’Opera dunque priva di intenzionalità e tuttavia inevitabile. Provvisoria ma al tempo stesso necessaria. Ignota allo stesso autore, almeno nel disegno narrativo finale.
Apprendiamo così che le prime righe de Le nozze di Cadmo e Armonia (il libro che lo rese popolare) furono scritte al ritorno di uno dei suoi annuali viaggi in Grecia. Ka (il nome segreto di Prajapati) nacque su un treno in India.
K (dedicato a Kafka) si alternava a L’ardore, come se un veggente vedico avesse la stessa enigmatica intensità dell’autore della Metamorfosi. E Alan Turing nell’Innominabile attuale fosse un calco di Artemide ne Il cacciatore celeste.
Tanta disinvolta filologia su che cosa si fonda? Sul semplice fatto che Opera senza nome si compone dei resti di una storia segreta e infinita. Immagini raccolte in un disegno tutt’altro che preordinato.
Parole che variano e si ibridano dentro un edificio permanentemente in costruzione. Qualcosa, insomma, di immobile come l’Egitto e di mutevole e nuovo come Baudelaire auspicava.
Possibile tenere insieme una così anomala costruzione? Possibile che l’estrema casualità del dettaglio si incastoni nel tutto armonioso di un’avventura letteraria fuori dal tempo?
L’Opera senza nome risponde per un verso alla struttura circolare: ciò che troviamo alla fine è anche ciò che vi è all’inizio; dall’altro questo “eterno ritorno” è un aperto, un unicum, una primavoltità, appunto. Verrebbe da dire “un animale nella foresta”.
Viviamo in un’epoca che sfugge tenacemente alla parola essenziale. Siamo entrati in una zona senza nome, ma dal momento che l'”indicibile” si è trasformato in mostruoso, si fa molta fatica a comprendere ciò che abbiamo perso. Alla fine la più penetrante delle emozioni che si prova alla lettura dell’Opera è avvertire ancora la presenza dell’ineffabile.
Non c’è niente di irrazionale in ciò. Resta semmai la sfida di un uomo che attraverso il confronto aspro, ironico, sferzante, ma anche dolce, tenue, pietoso, ha cercato di affrontare le diverse facce del “tremendo”.